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Chi sono gli eredi dei patriarchi friulani?

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Maurizio, Andrea, Filippo e Elda Felluga

Era «l’età del pane», come la chiamava Pier Paolo Pasolini, quella dei bisogni semplici, quella dei patriarchi del vino. Metà del Novecento, il mondo contadino come scrigno di valori positivi. «Un entusiasmo, un calore che rendeva bella qualsiasi cosa: l’idea di andare a bere un bicchiere, la più comune che si potesse avere in quel momento, gli parve stupenda», pensava uno dei ragazzi del «Sogno di una cosa», primo libro dello scrittore di Casarsa. Molti emigravano, cercando il pane in quale fabbrica o in qualche miniera. Le colline si spopolarono, abbandonati i vigneti. In pochissimi si intestardirono, con il sogno di un vino non più per le damigiane ma per i buoni ristoranti d’Italia. Una rivoluzione che aprì al Friuli per porte del mondo. Ora quella stagione dei patriarchi è finita. Al loro posto i figli, una nuova generazione di vignaioli.

 

Carlo, Giorgio e Maria Angela Schiopetto

Mario Schiopetto, di Capriva del Friuli, è stato il patriarca-innovatore, grande e delicato sperimentatore del Collio. Tra i primi a vinificare in bianco, preciso al punto da trascorrere le notti in auto, nel parcheggio della cantina, ad aspettare l’ora della fermentazione. Ha iniziato nel 1965, affittando terreni dalla Curia. Cinque anni dopo si era già imposto con Pinot bianco e Malvasia. E con il Tocai (si chiamava così allora, dal 2005, per diktat europeo, il nome è Friulano). Con Mario il vino pop del Nordest diventò longevo e complesso, al punto da costringere il critico Luigi Veronelli a scusarsi pubblicamente sul “Corriere”: aveva consigliato di «berlo in prima giovinezza» quel Tocai, ipotizzando una vita breve, ma degustando una bottiglia con 18 anni d’anzianità scrisse:

E’ splendido. Occhio, naso, palato. Tale fu l’amore di Mario nel coglierne le uve, nel vinificarle ed elevarle, che questo Tocai 1983 è pari, se non più prezioso, altro che racconto, di un libro-in-quarto.

Mario, morto nell’aprile 2003, ha lasciato il posto ai figli Carlo, Giorgio e Maria Angela. «Abbiamo cercato di tener fede al suo spirito pioneristico e di ricerca di papà — racconta Carlo — aumentando il periodo di affinamento e riducendo da 17 a 8 i vini, 6 bianchi e due rossi». L’anima del fondatore vive nell’uvaggio bianco che si chiama proprio Mario Schiopetto («lo lanciò lui, non è la nostra dedica»). Nelle annate buone la produzione arriva a 200 mila bottiglie, con crescente quota di vendite all’estero.

A 98 anni Livio Felluga, è stato invece il patriarca-quercia. Controlla ancora i vigneti, una volta alla settimana. E ha da poco imparato a usare il computer che gli hanno regalato prima della laurea honoris causa in Viticoltura. Alla cerimonia nell’università è risuonato ancora una volta il suo motto di stupore umile: «Ma cosa go fato de grande?», che ho fatto di grande? Viene dall’Istria asburgica, ha combattuto due guerre, è stato prigioniero in Scozia. Al ritorno ha cominciato a comprare terreni semi abbandonati a Rosazzo, nei Colli Orientali. Non c’erano le Doc, si inventò come etichetta una carta geografica, per far capire da dove venivano le sue bottiglie. Quella mappa ha accompagnato la storia dell’azienda, anticipando di decenni il concetto di terroir. Ha piantato nuovi vigneti e infarcito di tecnologia la cantina di Brazzano di Cormòns. «E’ il nostro faro — lo descrive Elda Felluga, al comando con i fratelli Maurizio, Andrea e Filippo — un trascinatore che ci invita sempre a realizzare i nostri sogni». Come quando Maurizio si è battuto per creare Terre Alte, il primo uvaggio. Lui non era d’accordo, poi ha ceduto: «Se ci credi davvero, vai, dimostra che hai ragione tu». E quel vino bianco è diventato la nuova bandiera, assieme al rosso Sossò». I 23 ettari sono diventati 160. «Ma siamo sempre una azienda familiare — spiega Maurizio Felluga — anche se è tutto cambiato. Papà considerava un traguardo vendere a Milano e a Roma, ora esportiamo in 62 Paesi».

Alessio Dorigo

Se Livio Felluga è ancora attivo, Girolamo Dorigo, il patriarca-alla-francese si è ritirato lasciando il posto al figlio Alessio. La sua storia parte nel 1966 con l’acquisto dei vigneti Ronc di Juri a Buttrio e il Montsclapade a Premariacco, nell’attuale Doc Colli Orientali (ora gli ettari sono 40). Tutto comincia con il sogno di un bambino di 8 anni, quando la famiglia Dorigo, nella Firenze sotto le bombe del 1942, riceve una bottiglia di champagne per il Capodanno. Più di 20 anni «forse per la suggestione inconscia di quel brindisi allegro», Dorigo fa la spola tra il Friuli e La Francia per scoprire come si fa il vino con le bollicine. E nasca lo Spumante metodo classico friulano. L’esempio dei francesi, dai lavori in vigna all’uso delle barriques, diventa la regola. Viene recuperato il Pignolo, antico vitigno in via d’estinzione, un lavoro che vale a Dorigo nel 1979 il premio Risit d’Aur, quello dei Nonino. E per il rosso Montsclapade viene scelto lo stile bordolese.

Ora Alessio Dorigo ha spostato la cantina a Povoletto. «E’ più piccola di quella pensata da papà, ma la produzione resta la stessa, 120 mila bottiglie. Sono affascinato dai vini friulani, esattamente come lui. Non voglio cambiare, la mia idea è che il consumatore va rassicurato mantenendo la filosofia di famiglia». Proprio come nello slogan che Alessio ha scelto e che può valere per tutti gli eredi dei patriarchi pasoliniani: «Una passione, una missione che continua».


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